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Cosa significa progettare il lavoro quando persone e sistemi intelligenti collaborano ogni giorno? In questa intervista, il Prof. Federico Cabitza dell’Università degli Studi Milano-Bicocca ci aiuta ad andare oltre l’intelligenza artificiale e approfondire in quattro domande il concetto di intelligenza ibrida. Per renderla una leva organizzativa che fa crescere sistemi e persone è necessario spostare il focus: dall’AI come mera tecnologia o supporto individuale alla dimensione dell’interazione.

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Prof. Federico Cabitza, Università degli Studi Milano-Bicocca

Insieme al Prof. Cabitza e al suo team abbiamo sviluppato i Kokeshi GPT, molto più di semplici modelli: veri e proprio colleghi virtuali che hanno arricchito format #colouredHR, come il Work Cafè™️ e il Complexity Game™️, collaborando con le persone per potenziare il confronto e gli output.

Lei si definisce un ingegnere interazionista. Ci spiega cosa significa e di cosa si occupa?

Mi definisco un ingegnere interazionista perché il mio lavoro non riguarda tanto il costruire tecnologie, quanto progettare le modalità di uso e, per così dire, le modalità di interazione tra persone e tecnologie.  

Oggi non abbiamo più solo strumenti da usare: abbiamo sistemi che ci parlano, ci suggeriscono cosa fare, apprendono dai nostri comportamenti, eseguono compiti in autonomia, e si adattano. In questo scenario, l’ingegnere interazionista si occupa di capire come combinare al meglio capacità umane e capacità artificiali, così che l’output della macchina sia davvero utile, affidabile e comprensibile, e il risultato della collaborazione tra umani e macchine sia appropriato, cioè efficace e sostenibile (rispetto al capitale umano).  

È un lavoro a metà tra l’ingegneria, la psicologia cognitiva e lo studio della organizzazione in cui tali interazioni devono avere luogo: mi interessa come le persone prendono decisioni, come collaborano con un sistema intelligente e cosa serve loro perché questa collaborazione funzioni davvero.

Nei suoi libri e nei suoi interventi parla spesso di “intelligenza ibrida”. È un sinonimo di AI o è un concetto differente?

Non si tratta di un semplice sinonimo. L’AI è la tecnologia. L’intelligenza ibrida è ciò che accade, come fenomeno emergente, quando umani e sistemi intelligenti lavorano insieme. È un paradigma diverso: non guardo alla macchina da sola, ma all’accoppiata persona-macchina come a un nuovo soggetto capace di fare cose che nessuno dei due farebbe altrettanto bene da solo. 

Parlare di intelligenza ibrida significa anche smettere di considerare l’AI come qualcosa “fuori” da noi: è un partner cognitivo, che può ampliare le nostre capacità, migliorare i nostri ragionamenti, o purtroppo anche indebolirli se la usiamo male.  

Se si parla di intelligenza ibrida anziché di intelligenza artificiale, il focus del discorso si sposta dalla tecnologia all’interazione, dalla macchina a noi e all’ambiente sociale in cui possiamo produrre valore e operare.

Come l’intelligenza ibrida può essere applicata alle interazioni tra le persone anche in azienda?

L’intelligenza ibrida diventa davvero interessante quando non è più solo un supporto individuale, ma entra nei processi collaborativi: riunioni, workshop, momenti di confronto. In azienda, infatti, molta della qualità del lavoro nasce da come i gruppi discutono, condividono informazioni, creano e fanno circolare conoscenza, e prendono decisioni. 

Sono grato a Kokeshi per essere stata disponibile a sperimentare una forma concreta di questo approccio, sviluppando i cosiddetti Kokeshi GPT, assistenti che partecipano alla conversazione come un “collega virtuale”. Con tali sistemi, non si sostituisce nessuno: piuttosto, si arricchisce il dialogo con domande, sintesi e spunti critici. 

La particolarità è che ogni Kokeshi GPT è addestrato su materiali specifici dell’azienda: documenti interni, contenuti formativi, framework teorici, articoli di riferimento. L’idea è sviluppare un assistente che conosce il contesto, usa il linguaggio dell’organizzazione e interviene in modo coerente rispetto agli obiettivi del Work Cafe ™.  

Ma di nuovo, più che il risultato finale, è importante il processo, e il percorso che si compie per raggiungerlo.  

In una recente esperienza dedicata al tema del feedback, abbiamo visto come questo approccio non riduca lo spazio umano ma, al contrario, potenzi la discussione: dopo le diffidenze iniziali, i partecipanti hanno percepito l’AI come un facilitatore che rende la conversazione più ricca e focalizzata.

A mio parere, l’intelligenza ibrida in azienda funziona quando l’AI entra nella dinamica del gruppo per valorizzare ciò che le persone fanno meglio: riflettere insieme e agire da squadra.

work-cafe-ai_BLOG-KOKESHI_FOTOQuali consigli si sente di condividere con chi vuole avviare progetti e processi a base di intelligenza ibrida nella propria organizzazione?

Ne do tre, spero che risultino sufficientemente concreti. 

  1. Partire dai compiti, non dalla tecnologia.
    Chiedersi: quali decisioni prendiamo ogni giorno? Dove sbagliamo più spesso? Dove sprechiamo tempo? L’AI è utile e appropriata solo se migliora questi ambiti di azione. 
  2. Definire chiaramente il “protocollo di collaborazione”.
    Ogni sistema intelligente deve avere un suo caso d’uso, cioè un ruolo preciso e un contesto di uso appropriato: cosa fa la macchina? Cosa deve fare l’umano? Come si valida ciò che il sistema propone? Senza un protocollo preciso si rischiano errori, deleghe eccessive o fraintendimenti. 
  3. Considerare gli effetti sulle competenze umane.
    L’AI può aiutarci molto, ma può anche assottigliare le nostre abilità se ci abituiamo a seguirla senza riflettere: di chiama automation bias, ed è un problema menzionato anche nel regolamento europeo AI Act. Bisogna progettare l’interazione in modo che le persone continuino ad apprendere, a decidere e a mantenere il controllo, senza deleghe eccessive e appiattimenti del loro spirito critico e agentività (agency). 

Per concludere: l’AI funziona davvero quando diventa parte di un ecosistema socio-tecnico ben progettato, cioè progettato avendo in mente la responsabilità sui possibili effetti, e la sostenibilità nei confronti del capitale umano presente in un contesto organizzativo. Se si “cura” la dimensione della interazione, l’intelligenza ibrida può diventare sempre meno un fattore di rischio, e sempre più un moltiplicatore di valore. 

 

 

 

 

 

Kokeshi coloured HR